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Toubkal pt.2

  • Immagine del redattore: Antonio Pilogallo
    Antonio Pilogallo
  • 29 ago 2016
  • Tempo di lettura: 3 min

Ci svegliamo alle 8h00 passate e solo perché ci chiamano per dirci che la colazione sta per finire. Tutti gli altri escursionisti son già partiti, il rifugio è deserto, ma noi non abbiamo fretta. Sarà l’aria di montagna, ma stranamente ci sentiamo pieni di energia per affrontare la seconda arrampicata, quella più dura.

Arrivare in cima a Toubkal (4.160 mt) è per qualche ragione meno faticoso del giorno prima. Sarà forse dovuto alla prospettiva di raggiungere presto il traguardo, all’aria frizzante o al maestoso paesaggio che ci circonda, ma il morale e l’andatura del trio rimane alto durante le oltre 4 ore di percorso.

Ci prendiamo anche il lusso di prendere in giro un ragazzotto con un grande sombrero di paglia in testa, che come noi stava scalando, soprannominandolo ‘el Mariachi’ e suonando la tipica colonna musicale messicana al suo passaggio.

Una volta in cima, ci troviamo a condividere qualche panino con un gruppetto di rumorosi ragazzini, un altro paio di escursionisti e, arrivato più tardi con tutta la musicale allegria messicana, el Mariachi.

Ci prendiamo un’oretta buona per fare cose che si fanno in queste occasioni: contemplare il paesaggio, respirare aria pulita a pieni polmoni, improvvisare ‘la cascata più alta del Nord Africa’ facendo attenzione a non farla controvento.

Quando decidiamo di scendere, per qualche ragione che ancora non mi spiego, sbagliamo sentiero. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima volta durante i tre giorni. Ma in quel caso ci ritroviamo a scendere lungo la parete piatta della montagna e ce ne accorgiamo solo quando, scivolando su dei sassi, assistiamo ad una caduta inesorabile degli stessi di 30 secondi buoni.

All’improvviso il sentiero non c’è più, tornare indietro è impossibile e ad ogni passo rischi di fare la fine dei sassi di cui sopra. In lontananza riconosciamo, sul sentiero principale dove anche noi saremmo dovuti passare tempo prima, il cappello di paglia del Mariachi. Ma la colonna sonora che pur ci viene in mente ci sembra troppo di scherno, e a nessuno di noi tre viene voglia di intonarla.

Il bastone da passeggio è diventato ormai un pericoloso impiccio e quando, scendendo, ne ritrovo un altro abbandonato riesco ad immaginare perfettamente la reazione frustrata di un altro turista incauto che, come me e prima di me, l’aveva lanciato via dopo l’ennesimo auto- sgambetto.

Adottando la sacra tecnica del ragnetto della scuola di Hokuto e facendo risuonare un paio di bestemmioni in svariate lingue, nonostante il conseguente rischio slavina, in un’ora e mezza riusciamo a venir giù dalla parete. Quando infine, dopo ulteriori due ore e mezza, raggiungiamo nuovamente il rifugio il nostro atteggiamento è lo stesso di quelli che avevano portato in salvo l’antico vaso, anche se l’amaro con cui festeggiamo non è il Montenegro.

Il giorno dopo, con tutta calma, ci rincamminiamo in direzione Imlil prima, e in auto per Marrakesh poi, dove arriviamo nel primo pomeriggio. Ci concediamo un menu da McDonald e andiamo a consumarlo insieme ad una birra a bordo piscina della casa di Tarek.

Lì Hamza, evidentemente soddisfatto dell’esercizio fatto, propone con l’entusiasmo di un bambino di ritornarci presto per fare un percorso alternativo e raggiungere un lago all’ombra della montagna. Tarek non risponde mentre io, galleggiando a pancia in su e godendomi la calda aria sahariana prima di ritornare a Casablanca, paternamente rispondo: “Poi vediamo”.

 
 
 

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