La Pasqua in Egitto
- Antonio Pilogallo
- 25 apr 2018
- Tempo di lettura: 3 min

Dopo quattro anni di astinenza, sono tornato a festeggiare la Pasqua in famiglia.
Va bene, la famiglia non era la mia. E la Pasqua non era quella cattolica. Ma il sentimento c’era.
Tutto è cominciato durante il derby di Milano, che stavo guardando con Federica, mia collega egiziana e tifosissima rossonera. Lei mi stava spiegando che, anche se io ero cattolico, avrei potuto prendere i 3 (!!) giorni di ferie che vengono dati per la Pasqua Copta. In quella, chiama Munir, il padre di lei.
Munir è un cuoco che ha lavorato più di 20 anni in Italia, parla dialetto romano e non fa mai mancare alla figlia le lasagne o altre leccornie per pranzo. Ho avuto un debole per lui sin da subito e quando mi ha invitato a passare Pasqua e Pasquetta in campagna con la sua famiglia ho accettato subito.
Così, la domenica successiva alla Pasqua in Italia, mi metto su un minibus diretto a El Fayoum, una cittadina a circa 100 Km dal Cairo. “Te scenni alla rotonda e io mando er mi fijo a prennerte!” mi aveva detto Munir, e così faccio. In realtà sarebbe venuto a prendermi lui stesso, forse ansioso di farsi una chiacchierata in italiano e raccontarmi di come fosse arrivato in Italia e come avesse imparato a cucinare spiando il cuoco mentre lavava i piatti.
Quella sera, insieme a tutta la famiglia, ci dirigiamo verso la casa in campagna, dove ancora abita e lavora un fratello di Munir. Arriviamo per le 9 e nelle ore successive vedo la casa riempirsi di (quasi) tutti i cugini, zii, parenti, amici, etc. In totale, circa 30 persone.
Ricordarsi i nomi sarebbe stato impossibile, così cercavo di riepilogarli con l’aiuto di Federica: “Allora, mi sembra che ci sia un Mohamed..?” chiedevo, pensando di beccarne statisticamente almeno uno. “Dude*, la mia famiglia è cristiana! Non ci sono Mohamed qui!” mi risponde lei. Ops.
A proposito di nomi, Federica e suo fratello Paolo devono il loro al fatto di essere nati in Italia. Tuttavia, sembra che questi due nomi siano troppo difficili da pronunciare e così in famiglia li chiamano in maniera completamente differente: Vita e Bola.
E comunque, neppure Munir è tanto complicato da pronunciare, ma in Italia lo chiamavano Mario.
Verso l’una di notte viene servita la cena. Mangiamo chi su un tappeto, chi sul divano. Non potendo esprimere il mio apprezzamento a parole – quasi nessuno parla inglese – comunico con linguaggio del corpo, azzannando con gusto l’oca arrosto e arrossendo di brutto col formaggio piccante fatto in casa.
Verso le 2.30 andiamo a dormire, occupando letti, divani e tappeti. A partire dalle 7 la casa si risveglia, perché andare in campagna al mattino presto è mejo, no?
Ci ritroviamo all’ombra di un grande albero nel bel mezzo di alcuni ettari di coltivazione della famiglia, e ci godiamo un classico pic-nic al quale si aggiungono altri conoscenti, parenti e le stesse famiglie di contadini (musulmani, loro).
L’aria è deliziosa, il cibo abbondante e fresco: cipolle - arrivate dal pezzo di terra a 3 metri da dove stiamo -, formaggi fatti in casa, l’immancabile mulukeyya (una specie di zuppa di spinaci), pesce fritto, pesce arrosto, pesce crudo sotto sale (orribile), thé, frutta, dolce, etc. All'improvviso spunta anche un po’ di vino bianco fatto in casa!
Passiamo la giornata mangiando, sonnecchiando e soprattutto giocando: a carte e d’azzardo con i contadini, accanitissimi. Ad altri giochi di società o da tavolo del posto, che richiedano giusto un minimo di arabo/inglese per capirci, con il resto dei nipoti.
A fine giornata avrei avuto modo di interagire un po’ con tutti, davvero fantastici a superare i limiti linguistici e farmi sentire totalmente a mio agio. Esausto ma felice, mi accingo ai saluti individuali prima di ripartire per il Cairo.
Nessuno ricorda (o può pronunciare) il mio nome, il ché mi solleva dall’imbarazzo di non ricordare i loro. Uno dei fratelli di Munir però lo fa: “Ma assalama, Antonio!”. A quel punto non ho altra scelta.
C’è una parola magica che gli egiziani usano spessissimo per mostrare affetto e riconoscenza, ma il cui significato letterale (“amore mio”) mi ha sempre dissuaso dall’uso. La conservavo nel caso avessi incontrato la mia Cleopatra, e invece mi ritrovo a spenderla con un distinto signore di oltre sessanta anni. “Ma assalama habibi!”.
*dall’inglese, traducibile con “coso”. In questo caso con “cretino”.
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