Il primo impatto, la seconda volta
- Antonio Pilogallo
- 8 mag 2016
- Tempo di lettura: 3 min

Trasferirmi a Casablanca è stato un salto nel vuoto, molto più del precedente mozambicano:
non parlo né la prima (arabo) né la seconda (francese) lingua nazionale
non ho nessuno ad attendermi, nessuna faccia nota
nessuno parlerà la mia lingua a lavoro
non so bene come ci si procura una birra in un paese musulmano.
Confesso, nell’aereo ero piuttosto teso. Poi, proprio mentre cercavo di godermi il panorama dello stretto di Gibilterra dall’alto, sento dire da un altro passeggero “Il y a la biere?”. Reminescenze di una lingua studiata 15 anni prima unite a una forte sete riaccendono in me il lume della speranza e quando anche a me viene servita una bionda made in Marocco il tutto comincia ad assumere un’altra prospettiva.
All’uscita dell’aeroporto trovo ad attendermi Akhmed, un omino con un cartello con il mio cognome, scritto bene (!), che litiga animatamente col collega che gli ha parcheggiato troppo dietro. Durante il viaggio notturno dall’aeroporto alla città osservo strade asfaltate a tre corsie coi lampioni ai lati funzionanti, gente che fa jogging al buio, palme e alberi simili piantati lungo tutti i principali viali.
Akhmed si sforza di parlarmi in qualsiasi lingua io riesca a capire e di insegnarmi le parole base di arabo. A fine corsa non ho il cuore di dirgli che non ne ricordo manco mezza e di sapere il suo nome solo perché mi ha dato un bigliettino da visita.
Il giorno successivo mi sveglio presto per passare a conoscere l’ufficio e fare un giro. Anche a causa del quartiere popolare dove sono capitato a vivere, la prima impressione che ho è quella di trovarmi nella Napoli degli anni 80’-90’, specialmente osservando l’impressionante traffico che c’è a qualsiasi ora del giorno:
i giovani guidano i Ciao e quegli altri motorini con i pedali. Chi ha uno scooter lo usa come una station wagon, caricandoci moglie, figlio piccolo, pastore tedesco e borsa frigo.
ci sono tantissime Fiat Uno e Citroen AX, diffuse quanto scassate. Gran parte di loro sono rosse e vengono chiamate ‘petit taxi’, ovvero taxi economici che i passeggeri però possono condividere se vanno nella stessa direzione, ed ai quali gli autisti possono rifiutarti l’accesso, se chiedi di andare in una zona della città poco frequentata e quindi non conveniente.
tutti usano il clacson, sempre. Quando cambiano direzione e tu potresti stare dietro l’angolo, impreparato. Quando è verde e te stai davanti e non sei ancora partito. Quando è giallo e te stai davanti e rallenti invece di accelerare. Quando gli altri hanno rosso, quindi fra qualche decimo di secondo a te diventa verde e tu ancora non stai sgasando. Quando a te, pedone che provi ad attraversare, stanno per investirti e però vogliono darti una possibilità di testare i tuoi riflessi e la tua agilità. Insomma, sempre.
La prima cosa che vado a visitare dopo l’ufficio è quella famosa moschea che si vede sempre nelle foto della città, la Hassan II. Costruita praticamente sul mare, è un edificio imponente e bellissimo, di fronte a una piazza sconfinata e dei portici di cui non ho capito l’utilità se non quella di fare ombra.
Nell’avvicinarmi per entrare, una ragazza coperta dalla testa ai piedi e con le sole punte delle dita di fuori mi afferra il braccio e in tre secondi, dico tre, mi disegna una roba artistica con una pasta strana color marrone, decorandola infine con dei brillantini azzurri e dorati. Mi hanno detto che si chiama Henna, che è una cosa tipica e che non va via dalla pelle con un semplice lavaggio.
All’ombra del più grande edificio religioso musulmano del Marocco decido di somatizzare una bestemmia e di mandarla via con gli spicci che avevo in tasca, piuttosto dei 10 euro che mi chiede – e forse la bestemmia me la becco io in arabo, ma non lo saprò mai.
Entro a visitare la moschea. Per rispetto mi tolgo le scarpe e le lascio all’entrata. Sempre per rispetto, mi copro l’henna e tutti i brillantini allungandomi la manica della felpa. Non si sa mai.
Per i primi tre o quattro giorni faccio cose da turista, visito appartamenti, mangio panini e patatine fritte, mi guardo in giro e faccio qualche foto col cellulare.
Chi vive in Africa nera chiama “Europa” anche paesi come il Marocco e, in generale, quelli mediterranei. All’epoca, per ignoranza, concordavo pure. Ma ora già comincio a non esserne tanto sicuro.
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