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Ndacoca

  • Immagine del redattore: Antonio Pilogallo
    Antonio Pilogallo
  • 28 mar 2016
  • Tempo di lettura: 4 min

Leggevo recentemente un articolo di un giornalista portoghese che descriveva Maputo come la preferita fra le sue città, facendo notare come un visitatore poco attento possa sbagliare soffermandosi ad osservare solo la città, e in generale il paese, senza tuttavia conoscerne le genti e le loro storie.

Come la storia della venditrice ambulante di cipolline rosse che si rifiuta di vendere tutte le sue cipolle ad un cliente perché sennò non saprebbe cosa altro fare per il resto del giorno.

La storia di una madre di 10 figli, incluse 4 (!) coppie di gemelli.

La storia di un venditore di batik la cui bontà d’animo, umiltà, intelligenza emotiva e fiducia nel prossimo, unite al fatto che la sua mamma ne storpiava il nome chiamandolo Tosé invece che José, ne abbiano reso una sorta di leader conosciuto da tutta la comunità mozambicana della capitale e non solo...

Una storia che mi è stata raccontata recentemente è quella di una ‘salopette’, che in portoghese si traduce macacao, ma che il piccolo Jojò chiamava Ndacoca – e neppure la madre ha mai capito da dove venisse questo nome:

“Quando aveva pochi anni di età, Jojò amava la sua ndacoca: era il suo vestito preferito e ci teneva tantissimo. Un giorno Jojò stava scappando via dal suo villaggio, nel distretto di Pebane. C’era la guerra civile e dei soldati facevano spesso irruzione alla ricerca di riparo, provviste, compagnia femminile.

Jojò stava scappando insieme con la madre, uno zio, le sorelle. La nonna no, lei diceva che non avrebbe abbandonato la sua terra fino alla fine della guerra e che fin quando ce l’avrebbe fatta a coltivare il suo orto non si sarebbe mossa da Pebane.

A un certo punto della fuga, stanchi per la corsa, il gruppo si fermò per riposare. Nella boscaglia il piccolo Jojò, evidentemente annoiato dagli ingiustificati silenzi dei suoi familiari, si sistemò la sua ndacoca, raccolse da terra un ramo spezzato e si nascose ora dietro un albero, ora dietro un cespuglio. Rimanendo in attesa qualche secondo, spiava i suoi compaesani correndo inconsapevolmente nella sua direzione e saltava fuori all’ultimo davanti a loro, impugnando il ramo come uno di quei fucili che aveva visto in mano agli adulti e - “Bam! Bam Bam!”- facendogli uno scherzo.

Il gruppo però presto riprese il cammino. Bisognava raggiungere il villaggio affianco per chiedere riparo ai parenti, il tempo stringeva e loro non sapevano se qualcuno li stava inseguendo. Lungo il cammino il gruppo incontrò un fiumiciattolo da attraversare, non troppo profondo ma con una corrente un po’ pericolosa. Jojò lo guardava preoccupato: tutti quegli schizzi avrebbero finito per sporcare con acqua e fango la sua ndacoca.

Tuttavia, lo zio lo prese in braccio e lo fece sedere sulle sue spalle, reggendolo con una mano mentre con l’altra cercava equilibrio mentre attraversava la corrente. Il fiume doveva aver esondato di recente e, quasi sull’altra sponda, Jojò storceva il muso guardando il terreno viscido e fangoso. Il disgusto si trasformò presto in paura, però, quando capì che lo zio lo avrebbe voluto scaricare lì per tornare a aiutare la sorella e le nipoti ad attraversare a loro volta. Jojò si lagnava e si dibatteva, ma lo zio lo lasciò a terra, lo mise a sedere nel fango e gli disse di aspettare lì senza muoversi e in silenzio. Jojò obbedì, ma la sensazione di viscido sotto il sedere lo sconfortava così tanto che finì per mettersi a piangere. Così lo trovò la madre quando arrivò: immobile per sporcarsi il meno possibile, ma con i lacrimoni e tante tante lamentele da esporre alla sua attenzione.

Superato il fiume, il gruppo raggiunse il villaggio ambito. Un altro zio li accolse, facendoli entrare rapidamente in casa e chiudendo la porta subito dopo. Egli raccontò ai nuovi arrivati come anche il loro villaggio era stato evacuato a causa delle razzie dei soldati. Il giorno dopo sarebbe stato necessario partire per la capitale Quelimane, dove i soldati non sarebbero arrivati ad invadere, per motivi politici. Ma ora bisognava fare silenzio, perché nessuno sapeva che loro erano rimasti lì in casa. Tuttavia, il piccolo Jojò si lamentava ad alta voce: era stanco, aveva fame e soprattutto nessuno sembrava dare importanza al fatto che la sua ndacoca era completamente sporca. Si schiaffeggiava il sedere e le gambe per tirare via il fango e la polvere, gridava all’indirizzo della madre. Lei, però, sembrava troppo impegnata a discutere con il padrone di casa, che minacciava già di mandarli via se non avessero smesso di fare baccano. Jojò sapeva che era importante affrontare la questione ndacoca, ma proprio quando stava aprendo nuovamente la bocca per farsi sentire notò lo sguardo finalmente preoccupato della madre. Doveva aver capito il problema, Jojò ne fu sicuro. E così la minaccia di grido si trasformò in uno sbadiglio e lui calò in un sonno profondo stringendosi al suo vestito preferito.”.

Non dico che siano tutte storie straordinarie per poesia, ilarità o avventura. Ma alcune lo diventano ai miei occhi, se penso che sono le storie delle persone che vivono il mio stesso quotidiano, colleghi e amici.

Ps. Oggi Jojò ha 33 anni, lavora come IT presso una società televisiva di Maputo ed è il naturale punto di riferimento di decine di espatriati che arrivano a Maputo. La madre è tornata a vivere a Quelimane dopo tanti anni nella capitale, accudisce il padre malato e vende carbone. La nonna è sempre a Pebane a lavorare l’orto.

Ps2. Se la bandiera del Mozambico l’avesse disegnata un bambino, sarebbe più bella.

 
 
 

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