Il pollo da Mamà
- Antonio Pilogallo
- 28 giu 2014
- Tempo di lettura: 2 min
Da buon italiano, uno degli aspetti che mi spaventavano di più prima del trasferimento in Mozambico era quello gastronomico. A dirla tutta, come mi ha insegnato qualcuno, partivo prevenuto nei confronti di qualsiasi cibo il cui nome finisse con una consonante.
In realtà, i miei timori si sono rivelati infondati. La cucina mozambicana magari manca un po’ di fantasia – se non è riso è polenta, se è carne è pollo, etc. – ma non di sapore. Inoltre a Maputo si trovano tanti ristoranti di buona qualità, a volte gestiti anche da italiani. Ciononostante, il posto dove preferisco pranzare è un altro.
Si trova a pochi chilometri a nord di Maputo dove, seguendo una strada che costeggia il mare e prima di arrivare al quartiere dei pescatori, s’incontrano una serie di baracchine sistemate a bordo strada, all’ombra di alcuni alberi dalla discutibile stabilità. E’ in una di queste che, tutte le volte che possiamo, andiamo a mangiare il pollo ‘da Mamà’.
Mamà è un’imponente signora a cui ho rinunciato di far ricordare il mio nome (quando mi va bene mi chiama Leonardo), sempre seduta su uno sgabellino, impegnata a pelare patate e a dare disposizioni ai suoi collaboratori più giovani. Mamà non è il suo nome, ma un appellativo che si da a tutte le signore di una certa età, in segno di rispetto.
Dopo averla salutata, in genere ci accomodiamo a uno dei tavolini sulla spiaggetta retrostante. La domanda del cameriere ‘cosa prendete?’ è tutta scena: le uniche cose che si possono mangiare sono pollo arrosto, polenta, insalata e patatine fritte. Al massimo puoi decidere di non prendere qualcosa, altrimenti ti portano tutto.
Non c’è tovaglia, non ci sono bicchieri e non ci sono posate. Per il resto, non manca nulla: c’è il ragazzo delle birre, quello dei tovaglioli, quello che gira con una bottiglia d’acqua e una di sapone liquido per lavarsi le mani. C’è anche il ragazzo degli smalti, se una non sa come ingannare l’attesa.
E poi c’è il sole, l’oceano, la brezza, le vele del kitesurf, lo skyline di Maputo in lontananza. Affondiamo i piedi nella sabbia e, quando arriva il nostro pollo, le mani nel piatto e i denti nella carne rosolata al punto giusto.
Ci sono alcune leggende su come venga cotto quel cibo, sul fatto che venga salato con l’acqua di un mare dove non oserei immergere più della caviglia, sull’annata in cui è stato inaugurato l’olio della frittura. “Ma faranno parte della superstizione africana!”, mi ripeto mentre assaporo.
A fine pasto, mentre l’ombra degli alberi si allunga sempre di più verso il mare, è possibile procurarsi qualcosa da sgranocchiare dal ragazzo delle noccioline. ‘Amendoins’, si chiamano in portoghese, con una consonante alla fine. Ma chissene.
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