Ilha de Inhaca
- Antonio Pilogallo
- 14 giu 2014
- Tempo di lettura: 3 min
Nonostante l’ “inverno” (virgolette d’obbligo) alle porte e nonostante buona parte dei mozambicani ce lo sconsigliassero, quattro europei dal sangue caliente decidono di avventurarsi all’isola di Inhaca. L’isola è praticamente un prolungamento della Baia di Maputo e prende il nome da una famiglia il cui patriarca è tutt’oggi il capo della comunità locale.
Si dovrebbe partire alle 7 dal molo, ma in realtà il battello non arriva prima delle 8. E che battello! La prima classe consiste nel ponte esterno e nella cabina dove l’odore delle uova per colazione del capitano si mescola ad altri tanfi non meglio identificati. Rosichiamo, credendo di aver pagato il doppio per nulla. Poi, individuando delle scalette che scendono in un antro oscuro sottocoperta, ci accorgiamo che c’è davvero una seconda classe!
La distanza da coprire non è moltissima, tant’è che nei giorni in cui non c’è foschia l’isola è visibile ad occhio nudo da Maputo, e viceversa. Tuttavia la traversata - e che traversata! –dura quasi 3 ore, dato che il battello, pur tirato al massimo e con il vento a favore, non supera la vertiginosa velocità di 12km/h.
Barcollando barcollando, arriviamo nei pressi dell’isola: il battello non può proseguire, che il fondale è troppo basso. Così, vengono a prenderci delle scialuppe – e che scialuppe! - a motore dall’aspetto tutt’altro che sicuro. E là dove di persone potevano starcene 8 ce ne mettono 16, tant’è che cominciamo ad imbarcare acqua prima ancora di arrivare. La barchetta si paga a parte – mi chiedo cosa succeda a chi si rifiuta di farlo - ma il servizio è davvero efficiente: una volta a riva, ci sono addirittura persone che si offrono di caricarti in spalla per non farti bagnare i piedi negli ultimi metri. Ah no, anche questo servizio si paga a parte.
Lasciati i bagagli in camera e procuratoci qualcosa da mangiare, ci facciamo scarrozzare in spiaggia che è già ora di pranzo. Percorrere l’isola in jeep è come partecipare a una puntata di Lion, quel gioco televisivo che trasmettevano su Tmc anni fa. Si prosegue così, una mano sulla bandana per non farla volare, l’altra a tenersi forte per non venire sbalzati fuori da una buca, pronti a schivare rami bassi e vegetazione insidiosa. E’ lì che conosciamo Etan, ragazzo statunitense di passaggio per il Mozambico, e campione mondiale di pranzo-con-forchettina-a-base-di-pollo-patatine-e–insalata-acrobatico.
Arriviamo alla Spiaggia di Santa Maria - e che spiaggia! -, un angolo di paradiso collocato in un’insenatura dell’isola. Passeggiando nell’acqua cristallina ci si imbatte in branchi di pescetti che incuranti ti sfiorano le caviglie e che, a volte, balzano fuori tutti insieme come per divertimento.
Riceviamo indicazioni per fare snorkeling con maschera e boccaglio, ma l’acqua è davvero gelida. Gli americani si tuffano, io mi faccio vincere dalla curiosità e li seguo. Pur rischiando l’assideramento ..minchia se ne è valsa la pena!! Nuoto costeggiando la barriera corallina, fra branchi di pesci bianchi e blu che si avvicinano invece di scappare, toccando con mano ricci e stelle marine, alla ricerca di due tartarughe marine avvistate poco prima da riva.
Riemergo dall’acqua gelida e cerco, invano, di convincere gli altri a imitarmi: “D-d-d-d-ai, è stupe-pe-pe-pen-d-d-do!”.
Per decidere dove dirigerci il giorno dopo chiediamo al proprietario del lodge di parlarci dell’isoletta vicina, praticamente poco piò una lingua di terra, di cui abbiamo sentito parlare:
A. “Ma per andare all’Isola dei Portoghesi, come dobbiamo fare?”
P. “E’ sbagliato chiamarla Isola dei Portoghesi.”
A.“Ah.. Perché?”
P. “Perché non ci sono portoghesi lì! Non c’è niente!”
A. “E quindi come si chiama?”
P. “Isola degli Elefanti!”
A. “Ci sono gli elefanti???”
P. “No! Ve l’ho detto, non c’è niente!”
A. “…”
P. "E' che anticamente i portoghesi si incontravano con gli indiani su quell’isola, per commerciare..”
A. “E gli elefanti?”
P. "No, elefanti non ce n'erano.."
A. “…”
P. “Comunque io vi consiglio di andare alla spiaggia del faro!”
A. “Va bene..”
Per lo meno il faro c’era davvero. Lo visitiamo il giorno dopo, godendo alcuni minuti del commovente panorama – e che panorama! – che si vede da lassù. Ci raccontano come nei mesi di settembre e ottobre sia estremamente facile avvistare da quel faro gli spostamenti delle balene, e addirittura ascoltarne il richiamo se si mette la testa sott’acqua. Segniamo sull’agenda e scendiamo in spiaggia.
Ci raccontano pure come, in quelle acque, sia facile avvistare delfini e squali. Così, passo tutto il viaggio di ritorno a scrutare il mare nella baia. Non ne ho individuati, ma sempre meglio che tenere gli occhi fissi sulla città che, alla vertiginosa velocità del battello, sembri non raggiungere mai.
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